Pochi giorni fa ero su una panchina, al parco della città, con mio figlio Riccardo. Ci stavamo riposando dopo aver giocato un po’ insieme a pallone. Era una bellissima giornata: il cielo era terso e un venticello leggero faceva muovere le foglie degli alberi. Parlavamo di quello che gli era successo a scuola in quei giorni, quando, dopo un breve momento di silenzio, mi chiese come era la mia vita alla sua età, le mie abitudini e chi fossero i miei amici.
Iniziai a raccontare di un gruppo numerosissimo di ragazzi, del calcio, delle passeggiate in centro, dei primi amori, delle liti. Io ero lì, preso da quella vita frenetica e divertente, che non lasciava spazio a pensieri pesanti. Tutto questo da un giorno all’altro venne stravolto da un virus che in silenzio stava creando panico nel mondo, facendo morire milioni di persone. Dal 9 marzo del 2020 noi ragazzi abbiamo inventato una vita virtuale perché da quella data non siamo più potuti uscire per ben 60 giorni.
Dopo questa premessa mi fermo, guardo mio figlio che a bocca aperta mi guardava come se stesse leggendo un libro interessante e con un filo di voce mi disse: “Continua papà! Cosa è successo poi? Come vivevi le tue giornate?”
“Non era semplice rimanere tutto il giorno a casa; avevo 15 anni e avrei voluto altro come poi tutti i miei coetanei che, dell’isolamento, ne abbiamo fatto uno status per lungo tempo.”
“E la scuola? C’erano le lezioni?” Domandò curioso mio figlio.
“Ogni mattina avevamo lezione on-line, ci collegavamo tutti o quasi, perché alcuni miei amici preferivano il letto ai libri di economia e ascoltavamo le spiegazioni come se stessimo in aula. A scuola non ritornammo più, purtroppo e devo ammettere che mi mancava. Sai, anche se non si va volentieri, mancavano le chiacchiere con gli amici per i corridoi nei minuti della ricreazione e le battute ironiche e divertenti con i professori.
Non sai quanto darei per essere al tuo posto, ora. Sì, perché si arriva ad apprezzare solo con l’esperienza degli anni, ciò che si è lasciato correre. Tutto ha senso. Lo capirai anche tu.
“Ma i tuoi amici? La tua ragazza? Perché, papà, tu eri fidanzato giusto? Come facevate per vedervi?”
Non incontrare i miei amici era dura; ero abituato a vederli tutti i giorni a scuola o a calcio ed a uscire il fine settimana per trascorrere ore spensierate. Ad un tratto ci hanno separati. Non potevamo uscire di casa se non per andare a fare la spesa. Fortunatamente la tecnologia era dalla nostra parte. Ogni sera ci collegavamo on-line e stavamo in video-chiamata fino a notte fonda; anche se nessuno lo ammetteva stavamo bene anche senza viverci fisicamente e quella quarantena non faceva altro che rafforzare le amicizie longeve e insegnare a conoscere meglio altri amici. Avevo una fidanzata e con lei, ogni giorno, facevamo lunghe chiacchierate. Ci mancavamo, logico, ma raccontarci era un modo per gestire la nostra assurda quotidianità.
Mio figlio, interessato, continuava a fare domande. “Gli allenamenti di calcio, papà? Anche lo sport si era fermato?”
“E sì. Si era fermato tutto quel maledetto giorno. Lo sport che ho praticato per più di 10 anni mi era stato tolto. Rappresentava la mia via di fuga dai pensieri di quel periodo adolescenziale, dai piccoli problemi quotidiani; giocare e correre in mezzo al campo significava essere liberi. Avere un posto in un gruppo, essere considerati. Io lì ero felice e tutto questo mi mancava.
Il nostro allenatore messaggiava spesso per darci consigli su come tenerci in forma. Svogliati come eravamo, era difficile per me pensare che avremmo eseguito le sue direttive, ma il miracolo c’è stato. Con costanza ed impegno ogni sera, alla stessa ora, mi chiudevo in camera per eseguire gli esercizi.
Gli occhi di Riccardo erano accesi e vivaci su un mondo a lui sconosciuto e la sua curiosità lo portava a fare altre domande. “Ma non ti annoiavi, tutti quei giorni in casa senza poter uscire?”
“Inizialmente tutto era strano, ma il virus, chiamato Covid-19, si stava propagando velocemente in tutto il mondo, causando centinaia di vittime al giorno. La situazione era pesante e la paura di essere contagiati era reale. Rimanere chiusi in casa e non frequentare il sociale era l’unica via di salvezza. L’unica soluzione per non correre in ospedale, dove gli scenari erano simili a campi di battaglia. Le giornate passavano tra le lezioni della mattina, lo svolgimento dei compiti al pomeriggio e in serata ci riunivamo per giocare on-line alla Playstation. Nelle giornate di sole, mi mettevo in terrazzo a prendere il sole e respirare un’aria che stava diventando sempre più pulita. La vita di sempre mi mancava, ma anche questa nuova dimensione non mi dispiaceva, perché mi dava modo di dedicarmi alle mie passioni e di pensare, cosa che non facevo prima per i troppi impegni.
“Mamma mia! Quando finalmente si è potuto uscire, cosa hai fatto?”
Ho guardato mio figlio e un attimo ho rivisto me ragazzino. Il ricordo di una ritrovata libertà era ancora così vivo che potevo sentire le mie grida e dei miei amici; mi sembra addirittura di avvertire il calore di un abbraccio e l’eco delle risate ritrovate dopo due mesi di reclusione.
Con un nostalgico sorriso, ho continuato a raccontare.
“Appena si è potuti uscire, era un lunedì, lo ricordo benissimo. Tutto in quel periodo finiva ed aveva inizio il primo giorno della settimana. Sono corso dai miei zii e da mio fratello. Mi erano mancati moltissimo. Non ero mai stato così tanto tempo senza vederli. Appena ci è stato permesso, mi sono visto con i miei amici per organizzare una festa in una casa in campagna. E’ stato come ritornare a respirare”.
Si stava facendo buio e iniziava a fare freddo. Guardo mio figlio. Siamo rimasti qualche minuto in silenzio, ognuno perso nelle sue considerazioni. Mi sembrava pensieroso, come se stesse riflettendo sulle sue abitudini e sulle privazioni che possono arrivare all’improvviso. Io, invece, ero ritornato a quell’estate anomala del 2020. Da allora niente è stato come prima. Per riappropriarci delle nostre abitudini sarebbero dovuti passare alcuni anni e comunque qualcosa dentro ognuno di noi era cambiato per sempre.
Ci alzammo dalla panchina, dove eravamo rimasti seduti per più di due ore. Gli misi la mano sulla spalla, come a proteggerlo dai miei ricordi di un maledetto virus e tornammo a casa.
Leonardo Marinelli 2^B AFM